La sorveglianza elettronica del lavoratore migliorerà la produttività?
La sorveglianza dei lavoratori in azienda sta per essere sdoganata dai decreti attuativi del Jobs Act che sono giunti martedì nelle commissioni Lavoro di Camera e Senato. I sindacati ovviamente sono sul piede di guerra, ma l'opinione pubblica probabilmente è spaccata al riguardo.

A maggio l'ipotesi di aggiornamento dell'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori – quello che vieta l'uso di impianti audiovisivi o di altre apparecchiature per monitorare a distanza l'attività dei dipendenti – aveva già fatto discutere. Adesso nero su bianco sappiamo che il datore di lavoro non avrà più bisogno di un accordo con i sindacati né del permesso delle Direzioni territoriali del lavoro per controllare i propri dipendenti con strumenti hi-tech e tradizionali.
Si parla di telecamere (per tutela e sicurezza), analisi dati dei PC, smartphone e tablet aziendali sempre in relazione al rapporto di lavoro. "Purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d'uso degli strumenti e l'effettuazione dei controlli, sempre comunque nel rispetto del Codice della privacy", si legge nel documento.
"È la terza grande operazione di indebolimento del lavoratore a favore dell'impresa, messa in campo dal Jobs Act, dopo i licenziamenti senza reintegra e il demansionamento con accordo individuale", ha dichiarato a La Repubblica Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. E così la pensano anche Cgil e Cisl.
In linea di massima è evidente che il controllo tecnologico si profila come uno strumento potente e richiede un patto fiduciario tra impresa e lavoratore. Il rischio di abusi sembra alto, ma gli industriali potrebbero rispondere che il punto debole dell'Italia è proprio il livello di produttività.
Ad ogni modo rimane un'unica criticità che forse serrerà le file di (quasi) tutti gli italiani: perché le nuove norme non saranno applicate anche ai lavoratori pubblici, ma solo a quelli del privato?